Anno Magico

Il Linguaggio Segreto degli Alchimisti

Leggere per la prima volta un libro di alchimia e cercare di cogliervi un senso preciso è un’esperienza frustrante: enigmi, contraddizioni, allegorie, simboli, interruzioni e reticenze improvvise suscitano in chi legge l’impressione di essere vittima di una beffa straordinaria.

Né potrebbe essere altrimenti di fronte ad una ricetta che inizia così: “Per estrarre l’anima dell’asino in venti giorni: prendi un asino o un’asina, battili fortemente finche non venga più fuori alcuna feccia, poi prendi la metà di un sapiente milite armato e mescola nella pila…“.

Oppure: “Prendi di qualcosa di ignoto la quantità che tu vorrai. ..”.

Nella celebre Turba philosophorun alcuni brani sono scritti in questo stile irritante:” Voi parlate assai oscuramente e troppo. Ma io voglio indicare completamente la Materia, senza tanti discorsi oscuri. lo ve lo ordino, o Figli della Dottrina: congelate l’Argento vivo. Di più cose, fatene due, tre, e di tre una. Una con tre è quattro. 4, 3, 2, 1, da 4 a 3 vi è 1, da 3 a 4 vi è 1, dunque le 1, 3 e 4. Da 3 a 1 vi è 2, da 2 a 3 vi è l’1, da 3 a 2 vi è 1. 1, 2 e 3 e 1, 2 di 2 e1, 1. Da l a 2, 1, dunque 1. Vi ho detto tutto“.

Gli alchimisti ci hanno lasciato molte migliaia di libri. È evidente che essi amavano scrivere e desideravano essere letti, ma preferivano non essere capiti. Questo perché l’alchimia è Arte Sacra, è il Segreto dei Segreti, e come tale va protetta dai curiosi, dagli indegni, dai non iniziati.

L’Alchimista (William Fettes Douglas)

Povero stolto – ammonisce apertamente Artefio rivolto al suo lettore – saresti davvero così ingenuo da illuderti che ti sveliamo, apertamente e chiaramente, il più grande e il più importante dei segreti? Davvero così ingenuo da prendere le nostre parole alla lettera? In buona fede ti dico che chiunque pretenda di spiegare secondo il senso più comune e letterale ciò che gli altri filosofi hanno scritto, si troverà ben presto smarrito in un labirinto da cui non riuscirà mai più a liberarsi...” .

Per lo scrittore di alchimia l’impegno è esporre tacendo, senza mai oltrepassare i limiti oltre i quali la spiegazione diverrebbe delazione. Fulcanelli, alchimista francese del XX secolo, confessa: “Talvolta davanti all’impossibilità nella quale ci troviamo, di spingerci più in là senza violare il nostro giuramento, abbiamo preferito mantenere il silenzio” .

Di quale giuramento parli, possiamo forse intuirlo da un antico manoscritto conservato a Venezia, che riporta una formula nella quale l’alchimista si impegna, in nome della Trinità, a non rivelare i principi essenziali della dottrina, pena terribili castighi divini.

Paracelso in un incisione del ‘500

Pur badando a non oltrepassare mai il limite della delazione, gli autori di alchimia sono più o meno aperti alle confidenze e in rapporto a ciò meritano la definizione di invidiosi o caritatevoli, avari o prodighi.

Invidioso o avaro è colui che si adopera con ogni mezzo per trascinare chi legge su una falsa pista; caritatevole o prodigo è chi fornisce magari poche spiegazioni, ma sempre veritiere.

Purtroppo una precisa suddivisione nelle due categorie non è possibile.

Autori che sono invidiosi per pagine e pagine, possono diventare caritatevoli su qualche passaggio specifico delle operazioni, e, viceversa, autori caritatevoli possono nascondere in mezzo a molte cose esatte una sola menzogna, sufficiente però a stravolgere il significato di ogni cosa.

Non è raro che un trattato di alchimia si apra promettendo di voler rivelare ogni informazione necessaria con la massima sincerità e chiarezza.

Così il Rosarium Phiosophorum di Arnaldo da Villanova: ” Questo libro si chiama Rosario, perché è una cosa fatta breve, tolta dai libri dei Filosofi, nel quale non è alcuna cosa occulta, nissuna fuori di via, nissuna diminuita; ma in esso si contiene tutto quello che è necessario al compimento dell’opera nostra“.

Copertina del testo alchemico “Rosarium Philosophorum”

Nonostante il tono accorato, l’affermazione è invidiosa al massimo, perché nessun trattato alchemico, compreso il Rosarium di Villanova, è costruito in modo da potersi dire completo, nessuno contiene l’intero complesso delle conoscenze indispensabili er portare a buon fine la Grande Opera.

Nel migliore dei casi l’esposizione è particolareggiata su alcune fasi dei procedimenti e molto disinvolta su altre; più spesso interi passaggi vengono taciuti; quasi sempre si usa la tecnica di alterare l’ordine cronologico delle singole operazioni: apparentemente il discorso è logico e continuo, in realtà si compie con continui balzi avanti e indietro.

A completare lo smembramento, anche all’interno di uno stesso testo, identiche materie ed operazioni sono chiamate con nomi diversi, e cose diverse vengono definite con termini identici. Un antico Filosofo avverte: “State attenti, o ricercatori di questa scienza, che gli invidiosi smembrarono l’arcano in parecchi pezzi; e trattarono di parecchie acque, succhi, corpi, pietre, spiriti in modo che devastarono quest’arte preziosa con la moltiplicazione di tutti i nomi…“.

E Geber scrive: “…tengo a dichiarare che, in questa mia Summa non ho voluto insegnare la nostra scienza in modo continuato, a l’ho disseminata qua e là nei diversi capitoli….“.

Oltre allo smembramento, i mezzi usati per nascondere o velare la verità sono molti.

Matrimonio tra il Principio Solare e quello Lunare, da un’antico manoscritto alchemico

Tra i più complessi, ma meno frequenti, è la crittografia, che consiste nello scrivere singole parole o intere frasi secondo una chiave particolare, talvolta in base ad un alfabeto costruito appositamente per l’occasione con segni ermetici, segni di fantasia, lettere e cifre mischiate.

Un bell’esempio di crittografia è nel Codice De Oldanis, del XV secolo, dove alcuni passi sono scritti secondo un alfabeto di venticinque segni: ventidue corrispondono alle ventuno lettere latine (la è rappresentata da due segni diversi), tre non hanno alcun significato e sono usati in principio, in fine o in mezzo alla parola per aumentare le difficoltà del lettore.

Autori meno avari usano forme più semplici, limitandosi a scrivere nomi alla rovescia, mischiando alla grafia delle parole lettere inutili, mettendo in atto abbreviazioni drastiche, come ad esempio aroph per aroma philosophorum.

Certamente molto invidiosi erano invece coloro che sottraevano alla completezza del testo intere parole per sostituirle con altre prive di senso.

Nel De secretis operibus artis et naturae di Ruggero Bacone c’è un passo, sulla cui autenticità non tutti sono però d’accordo, che nasconde in anagramma la ricetta fondamentale per la fabbricazione della polvere da sparo (nitrato di potassio, carbone di legna, zolfo).

Il brano suona così: “Sed tamen salis petrae luru vopo vir can utri et sulphuris; et sic facies tonitrum et coruscationem si scias artificium“. Anagrammando le parole senza senso, luru vopo vir canutri, si ottiene R.VII PART: V .NOV.CORUL. V:, abbreviazione di “recipe VII partes, V novellae coruli V”.

L’intera frase suona allora così: “Ma tuttavia prendi sette parti di salpetra, cinque parti di nocciolo giovane, cinque di zolfo; e così, se conosci l’artificio, farai tuono e lampo”.

A Fulcanelli, mai altrettanto caritatevole, si devono ampie spiegazioni sulla cabala fonetica, in base alla quale per comprendere il significato di una parola occorre tener conto del suono dell’insieme di lettere e non dell’ortografia, che ne costituisce il velo.

La cabala fonetica spiegherebbe. ad esempio. perché gli alchimisti facessero spesso riferimento alla leggenda di S. Cristoforo, il gigante che trasportò sulle spalle il Cristo fanciullo attraverso un fiume in piena.

Secondo l’etimologia greca “Cristoforo” significa “colui che porta il Cristo”, ma in alchimia, per assonanza fonetica, diviene “Crisoforo”, cioè “colui che porta l’oro”.

San Cristoforo (dipinto rinascimentale)

Si tratta – afferma Fulcanelli – del geroglifico dello zolfo solare o dell’oro nascente (Gesù), innalzato sulle onde mercuriali e poi portato dall’energia propria di questo Mercurio, al grado di potenza posseduta dall’Elisir“.

In altre occasioni il ricorso alla cabala fonetica porta Fulcanelli a speculazioni ancora più ardite.

Se la logica a volte è carente e la forzatura è palese, chi legge deve comprendere che non è importante il rigore filologico del ragionamento, quanto ciò che il Filosofo cerca di dire tra le righe cogliendo a pretesto la Cabala fonetica.

Ne Il mistero delle cattedrali il solito Fulcanelli svela anche un perfido caso di enigma alchimistico inciso su un muro.

Nella cappella di Palazzo Lallemant, a Bourges, in una nicchia del XVI secolo c’è la scritta “RE- RE, RER” , ripetuta tre volte.

Sul frontone vi sono tre granate ignee.

Secondo Fulcanelli la chiave è nell’indicazione di ripetere tre volte un medesimo procedimento, la calcinazione dello zolfo filosofale (indicato dalle granate ignee).

Quanto alle parole misteriose, spiega: “RE, ablativo latino di res, significa la cosa, considerata per quel che riguarda la materia che la compone; poiché la parola RERE e l’accostamento di RE, una cosa, RE, un ‘altra cosa, tradurremo l’espressione due cose in una, oppure una cosa duplice; così RERE sarà l’equivalente di REBIS”.

Il REBIS Alchemico

Purtroppo, dopo aver dato qualche ulteriore chiarimento sul Rebis, Fulcanelli si fa avaro e conclude di non poter essere altrettanto esplicito nella spiegazione dell’altra parola, RER.

Tuttavia, poiché è la metà di RE, RER equivale ad una materia(RE) più la metà di un’altra o della sua propria (R). Gli alchimisti fanno un uso larghissimo di simboli, giustificato come sempre dalla necessità di nascondere almeno parzialmente la dottrina: “Così anco i Filosofi chimici – si dice nel Dell’imprese – nascondono gran magisteri sotto le aquile, i dragoni, le lacrime, il latte di vergine, luna, sole, matrimonio, monte, risuscitare, spirito, anima e cose simili. Questo si è fatto perché non si conveniva che cose nobili si intendessero da tutti gli sciocchi, perché sarieno state disprezzate e derise, et la filosofia stimata pazzia…“.

Molti simboli attingono al mondo animale, costituendo un folto bestiario di cui fanno parte sia esseri mitici, come Il fenice o l’unicorno, sia reali.

L’astrologia contribuisce in modo fondamentale ad alimentare il patrimonio del simbolismo ermetico.

Il rapporto pianeti = divinità = metalli risale alla più alta antichità ed è entrato nell’alchimia con le corrispondenze divenute poi consuete: Sole (Apollo) = oro; Luna (Diana) = argento; Mercurio = mercurio o argento vivo; Venere = rame; Marte = ferro; Giove = stagno; Saturno = piombo.

I dodici segni zodiacali trovano precise corrispondenze in altrettante fasi della Grande Opera i soprattutto con i periodi dell’anno in cui esse vanno svolte: “Lo zodiaco dei Filosofi – scrive l’abate Pernety – non è la stesso che lo zodiaco celeste benché il primo abbia un grande rapporto con il secondo. I segni dei Filosofi sono le operazioni dell’Opera che bisogna percorrere per giungere al loro autunno, ultima stagione del loro anno, perch essa è quella durante la quale i Filosofi raccolgono i frutti del loro lavoro“.

Tra gli altri simboli di diversa natura, a ricorrere con grande frequenza sono poche decine.

Nell’ambito del simbolismo si collocano anche le illustrazioni, che quasi mai hanno valore puramente ornamentale.

Costruite piuttosto come vere e proprie appendici ai testi, utilizzano ogni genere di simboli e nell’insieme si leggono un po’ come rebus. Esiste, anzi, un libro di alchimia costituito unicamente da immagini, il “Mutus liber”, che descrive la realizzazione della Grande Opera in quindici tavole.

Prima pagina del “Mutus Liber”

Vi sono rappresentati un uomo e una donna che lavorano sia all’interno di un laboratorio, davanti all’athanor (forno a forma di torre), sia all’aperto, nei campi, per raccogliervi preziosi influssi cosmici.

Nel corso dei secoli molti autori hanno tentato di interpretare il Mutus liber, ma le loro spiegazioni sono spesso così fortemente contrastanti da non poter essere considerate definitive.

Elementi, corpi ed operazioni sono rappresentati con segni convenzionali.

Sulla loro origine sappiamo molto poco, ma sembra fossero sconosciuti agli albori dell’alchimia latina per entrare poi nell’uso corrente dalla metà del XV secolo.

Dopo il loro primo apparire i segni alchemici diventarono via via più complessi e numerosi, senza però costituire un ulteriore elemento di enigmaticità, poiché le tabelle che costituivano i significati corrispondenti erano di uso comune.

Nel ‘700 l’elenco dei segni era così nutrito che le tavole della Encyclopedie di Diderot e D’Alembert ne comprendevano circa cinquecento.

Ben altro acume gli alchimisti hanno usato per rivisitare la mitologia e la storia sacra, allo scopo di farne rappresentazioni allegoriche della Grande Opera.

La vicenda biblica del profeta Elia, rapito in cielo su un carro di fuoco, è usata nei libri di alchimia come raffigurazione dell’alchimista che ha realizzato il lavoro, ottenendo la trasmutazione di se stesso.

Anche la creazione di Adamo è assimilata all’opera alchemica, poiché come Dio trasse Adamo dal fango, così l’alchimista trae la Pietra Filosofale da una materia iniziale vile.

Il parallelo Cristo nato dalla Vergine Maria = Lapis (pietra Filosofale) nato dall’Acqua Mercuriale trova spazio già nella prima alchimia latina e conduce ad interpretare tutto il mistero cristiano in chiave ermetica.

Il capolavoro di questo filone è l’Aurora consurgens, scritta agli inizi del ‘300, in cui le Sacre Scritture divengono il pretesto per una lunga esposizione di parabole che in realtà hanno significato alchemico.

Pagina del manoscritto “Aurora Consurgens”

Del 1617 è il Symbola aureae mensae, che illustra l’alchimia come Messa: il sacerdote che officia davanti all’altare è l’alchimista che lavora davanti all’athanor; la Pietra Filosofale è come l’ostia, fonte di grazia e di vita eterna; l’elisir ottenuto con la Grande Opera è come il vino eucaristico; la trasmutazione del metallo vile in oro avviene nello stesso modo in cui l’ostia si trasforma nel corpo di Cristo.

Con l’identico processo si ricorre alla mitologia greca.

Teseo che lotta nel labirinto di Cnosso è l’alchimista che combatte tra le difficoltà della Grande Opera, difficoltà dalle quali si esce solo possedendo il filo d’Arianna, ossia la necessaria conoscenza segreta che fornisce la chiave del lavoro da svolgere; Dedalo ed Icaro, che nel mito evadono dal labirinto usando ali di cera, rappresentano le materie volatili.

Ma il culmine dell’attenzione mostrata dagli alchimisti per i miti greci è raggiunta nell’interpretazione delle vicende di Giasone e del Vello d’oro.

Il Vello d’oro, il cui possesso dà l’abbondanza, è la Pietra Filosofale; Giasone che parte sulla nave Argo è l’alchimista che intra-prende la via umida; le fatiche dell’eroe sono altrettante allegorie delle operazioni da compiere per arrivare al perfezionamento dell’Opera.

Per spiegare questo ed altri miti alla luce dell’alchimia, l’abate Pernety (1716-1801) scrisse Le Favole greche ed egiziane svelate.

Lo stesso autore, nell’intento di facilitare la comprensione dei trattati di alchimia, compilò anche il Dizionario mito-ermetico,che a sua volta non è un modello di chiarezza, poiche attribuisce a molte voci significati troppo generici o troppo oscuri.

A volte l’allegoria percorre l’intero testo e non soltanto alcuni brani.

Il Libro delle figure gerogljfiche, scritto agli inizi del XV secolo con la firma dello scrivano parigino Nicolas Flamel, nasconde, sotto la forma di autobiografia reale e documentata, il resoconto del cammino mistico dell’autore.

Il Libro delle figure geroglifiche di Nicolas Flamel

Nel nucleo centrale della narrazione Flamel ricorda come un giorno sia entrato in possesso di un manoscritto di alchimia molto vecchio, largo e dorato, composto da tre gruppi di sette fogli ciascuno.

Dopo averne studiato invano il contenuto per molti anni, egli si era deciso ad andare in pellegrinaggio a S. Giacomo di Compostela, in Spagna, per chiedere la grazia di una giusta interpretazione.

Adempiuto al voto, sulla via del ritorno aveva incontrato un mercante bolognese ed un ebreo convertito, Mastro Canches.

In compagnia di quest’ultimo Flamel aveva concluso, via mare, il viaggio verso la Francia, ma al momento dello sbarco l’amico ebreo era morto, non senza aver prima rivelato il significato dello strano libro.

Dopo altri tre anni di studio e di lavoro, Flamel era riuscito finalmente ad ottenere la sua prima trasmutazione.

Per molto tempo si è discusso se lo scrivano Nicolas Flamel, realmente esistito a Parigi tra la fine del ‘300 e gli inizi del’ 400, sia stato davvero un alchimista e se davvero sia da considerare l’autore del Libro delle figure gerogljfiche.

Per i seguaci dell’alchimia la questione è irrilevante, ciò che conta è il significato riposto.

Il manoscritto vecchio, largo e dorato simboleggia un sapere antico, di vasta dottrina, che ha per oggetto i metalli.

I ventuno fogli sono le sette operazioni dell’alchimia, da ripetersi tre volte.

Il pellegrinaggio a Compostela è l’allegoria della strada da seguire per giungere all’illuminazione, da ottenersi con la fede e la devozione.

Nicolas Flamel (incisione di Rembrandt)

Nel terzetto Flamel – mercante bolognese – Mastro Canches è la dissoluzione della materia prima.. Analogamente, anche altri elementi della biografia possono essere colti allegoricamente.

Nella storia della letteratura alchemica il moltiplicarsi degli strumenti di occultamento dei contenuti cammina di pari passo con il proliferare degli scritti.

Non è un caso se si considera che i libri di alchimia si sono fatti più frequenti via via che la trasmissione orale della dottrina, da maestro a discepolo, diventava sempre più rara.

E’ da supporre che nel momento in cui l’insegnamento e il contatto personale iniziarono ad essere un’eccezione, i maestri abbiano sentito la necessità di affidare alla scrittura il proprio sapere, premurandosi però di nasconderne le chiavi.

Il lettore poco saggio o frettoloso avrebbe così intravisto soltanto le meraviglie del giardino alchemico.

Ogni sapere sarebbe stato riservato al lettore capace di meritarlo con un paziente, quotidiano lavoro di meditazione ispirato a quel motto dell’alchimia che raccomanda: “Prega, leggi, leggi, leggi, rileggi, lavora e troverai“.

In realtà la difficoltà di accesso non serve soltanto a tener lontano i curiosi e gli indegni; è anche lo strumento idoneo a trasformare i meccanismi mentali del lettore, rompendo il suo ordine logico e risvegliando in lui regioni di coscienza oscurate, le uniche a consentirgli di comprendere l’essenza della Grande Opera.

La rottura del piano razionale come mezzo indispensabile per poter accedere allo stato di risveglio, di illuminazione, in cui tutto acquista un senso, è lo stesso perseguito dallo Zen e da altre dottrine esoteriche.

Il cifrario più difficile da sormontare non è dunque quello esterno al testo, che – quando è presente – può essere ricostruito con qualche sforzo.

Il vero cifrario, che rende impenetrabili i testi, è quello non convenzionale che proviene naturalmente dalla realtà che cela. Come scrive Butor: “E’ dunque vano indagare quale aspetto del simbolismo sia destinato a sviare. Tutto svia e rivela in pari tempo.“.

 

I veri demoni

Nelle scuole iniziatiche vengono spesso adottate come strumenti delle parole che, nella vita ordinaria, possono avere diversi significati che  ogni uomo interpreta secondo la propria soggettività e la propria immaginazione; nella Scuola invece tali parole hanno un significato preciso, unico ed inequivocabile e servono, ad un certo stadio, come delle chiavi per aprire le molteplici porte della conoscenza e della comprensione. Esse devono essere studiate ed apprese con gradualità.
Cosa significano ad esempio  i termini “sacrificio”, “amore”, “uomo ordinario”, “male”, “bene” ? Si  prova a chiedere ai propri conoscenti e si avranno tante risposte diverse quante sono le persone interpellate. Nel mondo della soggettività nulla è reale, nulla permanente.

In questa sede si tenterà di sviscerare il concetto di “demone” o se si vuole “diavolo” o anche “nemico del bene”.

Demone in pietra dalla cattedrale di Boscoducale (Olanda) 

Nella mitologia cristiana tradizionalmente si è soliti rappresentare il diavolo come un mostruoso essere dalle sembianze più o meno umane provvisto di forcone rovente che infligge supplizi fisici oppure come una specie di essere con grandi poteri che utilizza per causare ogni sorta di sventure all’umanità oppure come angeli con cattive intenzioni. Queste definizioni, probabilmente create con scopi metaforici, hanno perduto nel corso dei secoli la loro efficacia e sono invece stati  utilizzati per generale paura, timori inesistenti e probabilmente per controllare la vita degli uomini.

Nel percorso della Via si apprende ad interpretare efficacemente il concetto di “demone” al fine di avvalersene. I demoni sono tutti quegli ostacoli che impediscono all’individuo di accedere ad uno stadio di più ampia consapevolezza, incatenandolo in uno stato di schiavitù nella prigione in cui la maggior parte degli uomini trascorre e conclude la propria esistenza.
Paradossalmente nella vita dell’iniziato, dell’uomo sulla Via, i demoni si fanno più potenti ed insidiosi in quanto assumono forme più difficilmente riconoscibili.

Per poter comprendere cosa sono i demoni, come agiscono e quali possibilità si hanno per combatterli verranno descritti  in questa sede tre esempi:  i pensieri casuali, l’immaginazione incontrollata e le emozioni negative.
Tra i tanti possibili ( vale la pena di citare appena la paura, l’agire meccanicamente, l’inerzia, l’identificazione ecc. ecc.) sono stati scelti questi tre in quanto sono i primi con cui sui inizia a lavorare e sono all’origine di tutti gli altri.

Nella vita quotidiana noi abbiamo un certo controllo su alcune piccole cose di poca importanza e questo ci da l’ impressione illusoria di essere in possesso di una grande libertà, di detenere le redini del libero arbitrio; ma nella realtà le cose non stanno così.
Rientrando a casa dopo una giornata di lavoro possiamo decidere di sederci e di accendere lo stereo. Possiamo decidere quale disco inserire,  e quali brani in particolare ascoltare,  oppure di riascoltare il medesimo brano più di una volta, possiamo ascoltare al buio oppure osservando delle immagini, possiamo cambiare disco in qualunque momento ed infine decidere di far cessare tutto.
Su queste piccole cose, ….forse, abbiamo un minimo di libero arbitrio.
Ma si provi a pensare a quale sarebbe il nostro stato se avessimo lo stesso potere decisionale sui nostri pensieri; se ad esempio potessimo arrestare certi pensieri e “mandarne in onda” altri, come sarebbe la nostra vita ?
Se qualcuno si vuole prendere il disturbo di verificare ciò, sedendo per trenta minuti senza fare nulla, si renderà subito conto che la propria mente è sotto l’egemonia di pensieri che sono come dei personaggi che hanno vita propria e sui quali non è possibile esercitare alcun controllo; e se si tenta con un metodo coercitivo di controllo la situazione si aggrava.
La mente è un coacervo di pensieri disordinati, apparentemente casuali, sui quali assai modesta è la possibilità di intervento. Potersi rendere conto di questo è già un indice di un piccolo progresso; ma con seguire una certa capacità di controllo è tutt’altra cosa e richiede un tenace lavoro graduale, assiduo e guidato da un Maestro che già è riuscito nell’impresa.

I pensieri casuali, quasi sempre superflui se non dannosi, conducono direttamente all’immaginazione incontrollata. Da un singolo pensiero si inizia prendere corpo una situazione immaginaria nella quale l’individuo, sotto l’effetto dell’identificazione, immagina cose positive o negative ma che comunque non hanno alcuna attinenza con la realtà ed in quel momento è del tutto inconsapevole. Laddove non c’è attenzione e controllo, si sviluppa l’immaginazione.

Gesù cammina sulle acque: simbolo del dominio sulle proprie emozioni.

L’identificazione diventa completa al momento in cui all’immaginazione si associano le emozioni negative.
Ma anche senza passare attraverso i pensieri inutili e l’immaginazione, gli odierni sistemi di comunicazione massificanti possono evocare con grande facilità nei dormienti le emozioni negative; talvolta anche talune produzioni artistiche e letterarie sono in grado di suscitarle nell’inconsapevole fruitore; nella cultura ordinaria, specialmente quella di ordine filosofico e psicologico, le emozioni negative vengono talvolta ritenute utili, necessarie o addirittura inevitabili.
Ciò è completamente errato. Tra i “demoni “ più potenti, le emozioni negative sono al primo posto pertanto è necessario precisare che:

  1. non hanno alcuna utilità;
  2. sono dannose per lo sviluppo in quanto consumano una grande quota di energia che dovrebbe essere destinata ad altri scopi;
  3. non sono inevitabili, come comunemente si pensa,  ma evitarle richiede un lavoro assai impegnativo, specialmente all’inizio.

A questo punto si sarà compreso che i demoni sono i detrattori del lavoro di evoluzione e sviluppo, che essi riducono sistematicamente le energie disponibili per l’elevazione.

E’ lecito chiedersi allora come si possa intervenire.

Nella Tradizione Iniziatica si è solito dire che l’uomo non ha volontà. Se questo fosse interpretato alla lettera, non ci sarebbe alcuna speranza, mentre in realtà si dispone di una piccolissima quota di volontà debole che deve essere sviluppata ed accresciuta.
L’uomo che è appena alle soglie della Via dispone dei seguenti mezzi:

  1. le informazioni che recepisce attraverso i cinque sensi;
  2. la comprensione intellettuale più o meno sviluppata;
  3. una quota minima di volontà.

e con questi mezzi limitati può già iniziare a fare qualcosa.

La prima cosa da fare, che precede tutte le altre è osservare e studiare se stessi con costanza in tutte le proprie manifestazioni. Dopo un certo tempo si sarà in grado di individuare le emozioni negative ed altri demoni. Fatto ciò, per poter intervenire è necessario porsi sotto la guida di un Maestro di esperienza.

L’importanza del Maestro

Un ragazzo lascia la propria casa mosso da un sogno; percorre deserti, affronta pericoli, mette a dura prova la propria intelligenza, volontà, pazienza e tolleranza, con una meta sempre di fronte agli occhi.

Quando infine la raggiunge, scopre che la meta reale non si trova là dove lui aveva creduto, ma proprio sotto la sua casa, nel luogo da dove aveva avuto inizio il suo viaggio.

La copertina del libro “L’Alchimista” di Paolo Cohelo 

Questa è la storia de “L’Alchimista”, di Paolo Coelho, analogia di chi, mosso da un irrefrenabile bisogno di ricerca, si spinge a vagare in ogni direzione.

Iniziano così vari percorsi, sia fisici, dalle Ande al Tibet, sia spirituali, ognuno dei quali contribuisce alla crescita dell’individuo, ma difficilmente fornisce una risposta completa che sia in grado di saziare la molla della ricerca.

Il percorso in sé è parte integrante della risposta, perché è solo grazie ad esso che si compiono le esperienze che ci modificano giorno dopo giorno, sino a renderci capaci di capire che il tesoro è sotto i nostri piedi.

Se abbiamo scelto questa nascita, qui ed oggi, significa che qui c’è tutto ciò di cui abbiamo bisogno per espandere la nostra consapevolezza, forse racchiuso proprio in quelle prove da cui ci affanniamo a voler sfuggire.

Una volta capito questo, il percorso del ragazzo è già compiuto, e là dove finisce il libro ha inizio il sentiero dell’adulto.

In questa Era dell’Acquario, in cui si attende un collettivo risveglio di coscienza, siamo forse più pronti ad un messaggio che serva ad indicare alla gente confusa, non una fuga, ma una Via per trovare dentro di sé la forza per affrontare la vita quotidiana con i suoi problemi; in modo da ritrovare la serenità di vivere indipendentemente dall’ambiente esterno, ma grazie alla consapevolezza e ad un senso di gratitudine interiore verso la Vita.

Da questo punto in poi l’adulto è pronto a muovere nuovi passi e, tornando al romanzo di Coelho, a guardare con occhi diversi il tesoro che non può trovarsi altrove se non sotto i suoi piedi, anzi meglio “ nei suoi piedi”, dentro di lui.

David d.J. Teniers (1610-1690), Alchimista.

Il tesoro è l’uomo stesso, ma riuscire a vederlo con occhi sinceri è così difficile, da desiderare di girare tutto il mondo pur di non fermarsi mai di fronte ad uno specchio.

Tutte le prove de “ L’Alchimista”, intelligenza, volontà, pazienza e tolleranza, sono fondamentali se si vuole giungere alla meta e perseguibili ed a portata di mano per ognuno.

Se si ha fede nel “tesoro” e si insiste senza perdersi d’animo non c’è ostacolo che non verrà abbattuto (o meglio, trasformato) senza bisogno di grandi viaggi, pratiche complicate o estenuanti letture.

Quanto ai momenti in cui ci sentiamo smarriti, che nonostante tutto ci saranno, basterà alzare lo sguardo da terra per vedere e trovare l’aiuto di cui abbiamo bisogno.

La Vita ci pone di fronte solo gli ostacoli che siamo in grado di superare e che ci servono come insegnamento per migliorare noi stessi.

Ultimamente molti trasmettono l’idea che in noi è presente tutto ciò di cui abbiamo bisogno per il raggiungimento della Coscienza Universale (e questo è vero!) ma ci viene data l’erronea impressione che noi siamo preparati a compiere da soli ogni passo verso di essa senza bisogno di aiuto esterno.

Questo è un errore enorme, perché se è vero che abbiamo tra le mani una “macchina perfetta” è anche vero che ne abbiamo smarrito il libretto delle istruzioni; è quindi indispensabile accettare con la dovuta umiltà le indicazioni di chi è più avanti di noi.

Agrippa, “De Occulta Philosofia”

Le Leggi Universali sono molto più vaste di quelle che la scienza ci ha insegnato, è quindi buona norma ammettere la propria ignoranza in proposito e lasciarsi prendere per mano da chi le conosce.

Se questo sentimento è sincero un Maestro non tarderà a manifestarsi senza bisogno di andare a cercarlo all’altro capo del mondo, allora starà a noi mettere in pratica quotidianamente, con impegno e volontà, gli insegnamenti acquisiti.

Nei problemi che si presenteranno impareremo a riconoscere le prove per la nostra crescita ed in ciò ci verranno in aiuto le teorie lette nei libri che così si “faranno carne” in noi, per compiere la realizzazione dell’Uomo, del Regno di Dio dentro di noi.

Macrocosmo e microcosmo

Possiamo vedere noi stessi come microcosmo o come macrocosmo secondo a cosa ci vogliamo rapportare. La traduzione ermetica di ciò è che dobbiamo leggere il libro della natura per comprendere il meccanismo che l’Universo utilizza per evolversi, che è un meccanismo alchemico dimenticato dalle grandi religioni che hanno intrapreso nel corso del tempo un’altra strada: quella del potere degli uomini su altri uomini. Le scuole iniziatiche non basano la conoscenza sul dogma, non sul “sapere saputo”, ma sulla conoscenza vissuta personalmente come esperienza. Il sapere saputo è un sapere morto; ciò che si è sperimentato è sapere vivo, è conoscenza reale.

Tutti i simboli si riferiscono a ciò che è presente tanto nel microcosmo quanto nel macrocosmo e tutto ciò è presente anche dentro l’uomo. Per esempio nella Genesi si parla di Adamo ed Eva ovvero del principio maschile e del principio femminile; questo è il primo fatto alchemico. Essi sono presenti nell’Universo e sono presenti nell’uomo; come pure nell’uomo sono presenti il serpente, la mela e così via. Chi ha orecchio per intendere può capire, chi ha occhi per vedere veda; le scuole iniziatiche  esistono per questo scopo, esistono per coloro che vogliono intendere, tramandando un insegnamento dall’antichità ad oggi.

Ma non è un insegnamento adatto a tutti perché molti sono privi dell’attitudine dell’intelletto e se non sono preparati a ricevere, possono andare fuori di testa perché  l’Energia dell’Eros  è un’energia molto forte, è come una “bomba nucleare” che ti può mandare “fuori dai gangheri” e allora si può affermare che, se male impiegata è dannosa.

Per questo la Via Iniziatica, come ogni scala, inizia dal basso; se qualcuno ci portasse subito alla cima non ferebbe bene perché se si cade ci si fa male. In altre parole, se l’aiuto non è sapiente, se non è dato da chi sa ciò che sta facendo meglio darlo e non riceverlo.

Samuele veniva svegliato di notte dal Signore e lui si alzava ma il Signore non rispondeva. La Luce ha il suo modo efficace per richiamarci al risveglio. Non ci può essere fretta nella Via; il primo gradino inizia con la fase citrina (urina) poi si procede con altre operazioni; è un lavoro lento e in accordo con le individuali impressioni di tempo.
Non si possono saltare le tappe e nemmeno accelerarle.


Atlante
(Franciscus Aguilonius, Optica, 1611)

Ogni cosa va unita ad un’altra. Ogni catena sana è fatta di anelli consecutivi.
Chi ha accelerato artificialmente il processo non ha ottenuto ciò per cui aveva iniziato; ci sono i tempi giusti. All’interno di questi tempi giusti si può essere solleciti tuttavia, perché se non ci fosse fretta del tutto nessuno farebbe nulla.

Nella Via si dice che c’è l’eternità a disposizione ma poi si dice anche che  “non c’è più tempo”; chi prende tutto alla lettera non percepisce altro che contraddizione in ciò.
Forse potremmo dire che non c’è fretta ma si sente fretta perché ci si comincia a rendere conto che man mano che si procede con gli anni la personalità si irrigidisce sempre di più e si cristallizza.

Nel corpo umano c’è un processo cellulare: una cellula, che rispetto all’uomo è microcosmo, partorisce un’altra cellula perché sa che deve morire e questa nuova cellula continuerà il lavoro intrapreso dalla precedente. La stessa cosa che accade nel microcosmo (cellula) accade nel macrocosmo (uomo): i discepoli proseguiranno il lavoro dei maestri. Come nel microcosmo così nel macrocosmo. La cellula del dito del piede mira a diventare una cellula del cervello, un neurone; così l’uomo ad un certo stadio tende ad evolversi ad uno stadio più avanzato rispetto a quello in cui è; la coscienza si dà da fare per salire la “scala dei valori”; la cellula nel sue essere “sa” che deve fare questo percorso di risalita e per questo tutto fluisce, tutto è in movimento, niente è fermo.

Noi abbiamo una certa possibilità di potere su questa assemblea di cellule e possiamo accelerare fino ad un certo punto il ricambio e mantenere lo stato. Il lavoro iniziatico serve a mantenere in vita tutti i neuroni che con il solo sapere saputo muoiono.
Molti iniziati di diverse provenienze hanno a pieno titolo acceduto nella storia ad alte cariche istituzionali e sono stati fondatori di strutture  note a livello mondiale, o sono stati uomini di stato o personaggi tipo Washington, Mozart, Kipling, Garibaldi, Churchill, Einstein, Shakespeare, Stan Laurel & Oliver Hardy, Louis Amstrong, John Waine, Totò, eccetera, e con questi uomini si sono potute osservare alcune forme di progresso.

L’Alchimia ha come simbolo il caduceo alla sommità del quale c’è una pigna, simbolo delle vestali di Dioniso, le baccanti con in mano l’asta d’oro.  Quando l’Iniziato si realizza la pigna si apre e compaiono le ali. La pigna può essere considerata il simbolo della ghiandola pineale e le ali la melatonina che appunto  “mette le ali” ai neuroni consentendo loro di eseguire un lavoro con coscienza accedendo in tal modo ad un intelletto superiore.

Noi non dobbiamo aspettarci nulla e non possiamo avere alcuna garanzia di nulla. Chi aspetta dispera. L’Iniziato aspetta ma non si aspetta nulla: diciamo che “sa” aspettare non passivamente, non facendo sogni elevati. Il “soffio divino” soffia dove vuole lui non dove vogliamo noi. Alcune statue antiche che rappresentano Mercurio lo mostrano come uscente da una faccia che soffia collocata al disotto. C’è in noi un meccanismo che si prende gioco di noi stessi: più ci si aspetta e meno accade.

Quello che sta dentro dice “quando io voglio”. Ma chi comanda veramente dentro di noi ? Chi è che mantiene l’ordine cellulare ? Crediamo di essere noi, ma noi chi ? Crediamo di essere noi ma è qualcosa o qualcuno in noi che ci fa fare le cose.  L’ego ha creato la personalità che è come un paravento messo davanti a “colui che dentro muove i fili”.
Con lo sviluppo dei vizi quello che sta dentro lavora negativamente mentre con la trasformazione dei vizi in virtù quello che sta dentro cambia la modalità e la qualità dell’azione. Egli è il Dio o il Diavolo che fa di noi un santo o un degenerato secondo la qualità della carne che gli diamo in pasto.

Quando diciamo “io sono” non è il corpo che lo dice ma colui che è dentro.
L’ego materiale è molto astutoe non si fa ridurre tanto facilmentee per difendersi crea abilmente dei respingenti.
Qualcuno affermò che la più grande abilità del Diavolo è far credere che non esiste; noi possiamo parallelamente affermare che la più grande furbizia dell’ego è far credere a chi ce l’ha di non averlo o che non esiste.

L’ego non è uno ma una “legione di ego” come qualcuno la definisce.
Il Mito Della Medusa illustra questa situazione: essa rappresenta la personificazione della parte oscura della Luna, la sua parte malevola; i serpenti in testa alla medusa sono i raggi della Luna, emanazioni negative del pensiero conscio e per affrontarli bisogna fare proprio come ha fatto Perseo che vince la medusa distogliendo da essa lo sguardo ed osservandola attraverso i riflessi speculari dello scudo e così può tagliargli la testa . L’ego, o gli ego, attaccano l’individuo nelle cose materiali facendolo divenire pietra pesante, creano ostacoli.


Medusa

Nel Primo Grado il candidato lavora sulla volontà perché senza quella non può proseguire oltre questo primo grado, e tale “primo anno” può allora arrivare a durare tre anni o più del nostro tempo.

Ma volontà non è semplicemente smettere di fumare o smettere di mangiare carne, queste sono piccole cose. Nel percorrere la Via si perdono cose di una dimensione e se ne acquistano altre appartenenti all’altra dimensione.

Chi domina la propria volontà, il cui simbolo lo ritroviamo nel tarocco dell’eremita con il bastone in mano che domina il serpente dei desideri, può iniziare col Secondo Grado dove l’amatore lavora sulla parte emozionale, sugli attaccamenti e  realizza il vero distacco.

Al Terzo Grado l’ Artista realizza la Grande Opera, è il Templare che realizza il proprio tempio e la coscienza gli si illumina. Questa è la TERRA PREPARATA libera dalle gramigne = TERRA SANTA = TERRA GIUSTA per seminare il seme prezioso della virtù; allora ci si può definire alchimisti. Questi sono i gradini della scala. Ma se si saltano dei gradini allora non accade nulla, dentro non si forma nulla e non si sente nulla. Sul libro della natura è scritto “natura non facit saltus”.

Nella Via Inizatica non si ammette che si dica “non ci riesco”  tuttalpiù è ammissibile che si dica “non voglio”. Non è un percorso obbligatorio: il mondo è pieno di mediocri ed uno più o uno meno poco conta; nella Vigna del Signore c’è di tutto. Se non si è disposti a percorrere i gradini uno alla volta è molto meglio non intraprendere nulla perché si perderebbe solo tempo. Ma se c’è la spinta interiore allora non ci si puoi negare il percorso, per quanto faticoso e duro possa essere. Se uno ha nostalgia del cielo o, come si dice, “sete di cielo” allora non può tornare indietro e dunque se dobbiamo fare il percorso facciamolo come deve essere fatto.
Molti se la prendono con il Maestro o con la Via, ma a torto perchè se l’iniziato non funziona la Via non per lui non funzionerà.

Non si tratta di avere il pennacchio in testa o di esibire medaglie, gradi o bandierine come quelle apposte nelle uniformi degli alti ufficiali militari. Simili gradi sono virtuali. La corsa ai gradi che ha imperato talvolta in alcuni ambienti è sterile. Il grado reale è quello che si forma dentro , lo si sente e lo si vive. Conta l’amore per la ricerca e l’esperienza vissuta sulla propria pelle: questo cambia l’essere non virtualmente ma realmente. Quando avremo attraversato il ponte che ci conduce da questo mondo a quell’altro non porteremo dietro nessun grado ma solo “ciò che si è”.

I gradi e l’umiltà non vanno molto d’accordo. “Chi si umilia sarà innalzato, chi s’innalza sarà umiliato”. Ciò significa che il vero potere nasce con l’umiltà. E ciò che realmente si è conta.
L’ego non serve nella Via, o ne serve poco. Il Maestro non dice al discepolo “bravo” perché lui non è bravo. Se gli dice “bravo” non gli fa del bene, lo illude è come sputargli addosso del veleno. Non funziona nella Via questo tipo di incoraggiamento. Ed un giorno che diventerà veramente bravo se ne accorgerà da solo, non avrà bisogno che qualcuno glie lo vada a dire.
Nelle comunità Essene si doveva obbedienza al Maestro di Giustizia e gli ego si riducevano; tra i Gesuiti si andava incontro ad una forte spersonalizzazione quindi si guardava per terra e non negli occhi perché l’ego è la prima cosa con cui si deve lavorare. In fondo siamo tutti una sola cosa: Luce. E ci siamo manifestati. Non c’è differenza se sono vivo o morto perché la Luce è sempre la stessa.


D.A.Freher – Works of J. Behmen (1764)

Chi non muore non sa amare; è proprio L’A-MORTE il potere di coesione delle cose. Se si distraesse un attimo, tutto si disgregherebbe. Dopo la morte iniziatica, se questa non è solo virtuale, non si dovrebbe più temere la morte fisica perché si prende coscienza  del fatto che già si è morti, ma la vera morte iniziatica dipende da noi; Anticamente in alcune scuole seppellivano l’iniziato sottoterra per tutta la notte e gli davano un tubo per respirare e se moriva a loro non importava nulla. Erano esperienze forti che cambiavano l’essere.

Ma il SERVIZIO, quello vero, è roba del terzo grado: servizio è essere la pietra levigata che farà parte del tempio; da pietra grezza si pulisce dagli ego e si leviga nelle emozioni per poter essere una pietra del tempio sennò è un sasso nella strada. Chi non sa servire non sa dare. Dare con consapevolezza è la cosa più bella che c’è.

Laddove nel mondo profano il dare richiede la contropartita del ricevere, nella Via tale dualismo si risolve in unità ed il dare e ricevere sono la stessa cosa (“nessuno nasce o muore solo per se stesso”). Nel vero servizio si accumulano i valori che ritroveranno come vero denaro in un’altra dimensione.

 

L’Alchimia di Paracelso

Paracelso. Philippus Aureolo Bombastus Teofrasto von Hohenheim

Paracelso l’alchimista, lo iatrochimico, il mago.

Così fu infatti chiamato questo personaggio rinascimentale che racchiude in sè, forse più di ogni altro, caratteristiche ed umori del suo tempo.

L’esame comparato, della sua opera, spesso travisata, potrebbe costituire, a mio parere, un momento di riflessione culturale per tutti coloro che si avvicinano allo studio delle scienze e della filosofia.

Nacque in una località vicina a Zurigo il 17 dicembre 1493 ed è noto col nome latino, Paracelsus, del quale si era fregiato, quasi a voler sintetizzare il suo vero nome: Philiph Theophrast Bombast von Hohenheim.

Suo padre, Wilhelm, era medico e da lui apprese i primi rudimenti di quella che era nota anche col nome di Arte Regia, ovvero l’Alchimia.

Era dotato di un carattere molto irrequieto che lo indusse sempre ad agire da dissacratore e bohèmien.

Qualcuno addebitò questo suo modo d’essere alle influenze astrologiche del suo segno zodiacale, il sagittario.

I suoi comportamenti non facilitavano il mantenimento di buoni rapporti con il prossimo.

L’abate Lenglet du Fresnoy nella sua opera Histoire de la Philosophie Hermétique, così lo dipinge: “Mai uomo ebbe tanti nemici e fu tanto criticato, mai uomo ebbe tanti seguaci e fu tanto ammirato“.

I suoi rapporti con i colleghi medici erano filtrati dagli appellativi con i quali si rivolgeva loro: “Teste di cavolo“, “Manipolatori di sudice droghe e di medicamenti da cavalli“.

Egli era contrario alla fitoterapia, ovvero ai rimedi medicinali preparati con le piante, di contro, è il precursore della iatro-chimica, ovvero della chimica medica basata essenzialmente sulla distillazione e l’analisi dei minerali dai quali estraeva le sostanze che servivano a preparare i medicamenti.

Questo suo interesse per i minerali è giustificato dall’aver seguito da vicino l’attività del padre che, reputato esperto in questioni minerarie, fu nominato insegnante di chimica nella Scuola delle Miniere.

Ai tempi di Paracelso, la ricerca alchimistica, si snodava ancora, su tre principali filoni di ricerca:

– Ricerca della pietra filosofale, ovvero la sostanza capace di trasmutare i metalli in oro;

– Ricerca dell’alkahest, ovvero l’acido capace di sciogliere tutte le sostanze;

– Ricerca dell’elixir di lunga vita, ovvero la medicina per guarire tutti i mali;

Egli scelse il terzo livello di ricerca, quello che gli sembrò più utile e meno utopistico e lo concepì come fondato su quattro discipline o colonne fondamentali: filosofia (ovvero la conoscenza della natura intima e non visibile di ogni cosa), astrologia (l’arte di determinare l’effetto degli astri sulla salute del corpo), alchimia ed etica (virtù ed onesta del medico).

Paracelso al lavoro nel suo laboratorio alchemico.

In un suo scritto, il Paragrano, così si esprimeva intorno all’arte di preparare i medicamenti:

Pensiamo ora al terzo fondamento su cui riposa la medicina: questo è l’alchimia. Se il medico non è particolarmente e sommamente attento e competente su questo punto, tutta la sua arte è inutile. Giacchè la natura è così sottile e sagace nelle sue cose che non vuol essere adoperata senza una grande arte; essa infatti non porta nulla alla luce che sia già di per se stesso compiuto, è l’uomo invece che deve portarlo a perfezione. Questo perfezionamento si chiama alchimia. Poiché l’alchimista è in ciò simile al fornaio che cuoce il pane, al vignaiuolo che fa il vino, al tessitore che fa il panno. Colui dunque che realizza in tutto quanto cresce nella natura a beneficio dell’uomo, la destinazione voluta della natura, è un alchimista“.

Nel corso della sua carriera di iatrochimico, si recò in varie città sia italiane, che straniere, ove erano presenti scuole di medicina, tra le quali quella di Salerno, Padova, Bologna, Ferrara e Parigi.

Ebbe modo di dimostrare la validità delle sue ricette alchimistiche che diedero soluzione ai malanni di personaggi quali Frobenius ed Erasmo da Rotterdam ed a seguito della fama che gli derivò, ebbe l’incarico di docente di medicina presso l’Università di Basilea, città dalla quale dovette, dopo qualche anno, allontanarsi di gran carriera a seguito di una polemica con un suo importante cliente ecclesiastico, il canonico Lichtenfels, che, una volta guarito, reputò eccessivo il compenso che aveva promesso.

La storia finì in tribunale ove Paracelso, fedele al suo stile schietto e crudo, non tralasciò di dire anche ai giudici, cosa pensava di loro, della loro professione e della moralità delle loro madri.

Ne derivò una sentenza a lui contraria, una denuncia per oltraggio e le conseguenze che possiamo ben immaginare.

Paracelso dopo un periodo molto travagliato in cui peregrinò da una città all’altra, trovò ospitalità a Salisburgo presso l’arcivescovo Ernesto di Baviera, Principe Palatino nonché studioso di scienze occulte. Morì il 24 settembre 1541.

L’opera di Paracelso si basa essenzialmente nell’aver applicato alchimia ed astrologia all’arte medica e di ciò testimonia, la costruzione di un’impianto teorico fondato sull’intuizione delle corrispondenze tra macrocosmo e microcosmo.

Queste s’inquadravano nell’esistenza di un Universo costituito di una materia unica governata da tre principi alchimistici i quali, andavano inquadrati come una sorta d’ingredienti fondamentali, ovvero: Zolfo, Sale e Mercurio.

Egli concepì anche l’Unità e la Trinità di Dio quale espressione dello stesso concetto mentre, i quattro elementi, Aria, Acqua, Terra e Fuoco rappresentavano concretamente i principi attivi che trovavano alimento in una forza generatrice universale che Paracelso chiamò “Archeus” che in lingua greca significa origine, principio.

Sale, Zolfo e Mercurio

La conseguenza di questa visione filosofica era che l’uomo e l’universo, essendo costituiti della stessa sostanza, venivano governati dalla medesima dinamica ed armonia.

Nello scritto Philosophia de generationibus et fructibus quatuor elementorum, a tal proposito scrisse:

Dio ha formato il mondo in questo modo. In principio ha creato un corpo, dal quale derivano i quattro elementi. Egli ha posto questo corpo in tre parti, Mercurio, Sale, Zolfo, che sono tre cose ma formano un solo corpo. Queste tre parti producono tutto, così che in esse vi sono i quattro elementi. Queste tre cose hanno in sé ogni virtù e ogni volontà delle cose in divenire. Perciò in esse sono posti il giorno e la notte, il caldo e il freddo, pietre e frutti e altro, ma non ancora formati. Come un pezzo di legno non è altro che legno (ma ha in sé tutte le forme degli animali, tutte le forme del mutamento, tutte le forme degli strumenti …) , così questo primo corpo è posto in un blocco, nel quale riposano tutti i miscugli, tutte le acque, le gemme, i minerali, le pietre e il caos. Quest’ultimo è stato suddiviso dal Grande Creatore e posto come sottile, così che appena è stato suddiviso è stato posto come un altro essere. All’inizio Dio ha separato la luce e da ciò che era rimasto ha separato altre tre sostanze, il fuoco, la terra e l’acqua, da questi ha separato il fuoco, in modo che ne restassero due e così via sino alla fine“.

Nella tradizione alchemica, l’opera paracelsiana si distingue per la posizione nella quale colloca l’uomo e sulla distinzione tra corpo fisico e corpo siderico-astrale, il primo, dominato dagli elementi acqua e terra, mentre il secondo dall’aria e dal fuoco o, meglio dire, dai loro principi attivi.

Il corpo siderico-astrale era quello che consentiva all’uomo di stare in contatto con le ipotetiche correnti che, secondo Paracelso, pervadevano il cosmo e che egli considerava “l’intimo firmamento dell’individuo“.

Egli ha, nel contempo, ipotizzato l’esistenza di un condizionamento reciproco tra i due corpi che possiamo inquadrare, a grandi linee, come la formulazione ante-litteram dei principi sui quali si baserà la medicina psicosomatica e l’intuizione di Jung circa la struttura archetipica della psiche.

Paracelso fu un’acceso detrattore dell’opera di Galeno (130-200 d.C.) il quale aveva basato la sua medicina sulle conoscenze anatomiche e su una farmacologia dietetica che contrastava con la medicina minerale che guidava i suoi esperimenti.

Di questa opposizione testimonia quanto Paracelso ebbe a scrivere: ” … il dottore illumina la materia perchè conosce la causa e con essa la maniera di digerire e preparare i medicamenti“.

Egli ipotizzò, tra l’altro, una sorta di cosmogonia alchemica, ovvero un’universo ove i pianeti, erano in stretta coniugazione con gli organi del corpo umano e se ne facevano tutori nel bene e nel male. Al medico spettava il compito di fare da tramite tra il pianeta e l’organo per tentare il riequilibrio che avrebbe sconfitto lo stato patologico.

I metalli-pianeti nel micro e macrocosmo

Nel Paragrano, una delle sue opere, così ebbe a scrivere:

Ciò che quindi appartiene al cervello, sarà condotto al cervello dalla Luna, quel che appartiene alla milza, sarà condotto alla milza da Saturno, quel che appartiene al cuore, sarà condotto al cuore dal Sole, e così i reni da Venere, il fegato da Giove, mentre sotto il dominio di Marte si troverà la bile. Così stanno le cose, non soltanto per questi organi, ma anche per tutti gli altri, infiniti a dirsi“.

Ancora:

” … il medico deve depurare il suo sapere da complexiones (=attività) , humores (=umori) e qualitates (=qualità) e conoscere negli astri la potenza della medicina; vale a dire deve conoscere secondo gli astri la qualità specifica della medicina, rendendosi dunque conto che ci sono astri superiori e inferiori. E giacchè la medicina non può senza il cielo produrre effetto veruno, essa deve agire per tramite del cielo medesimo, salvo quello di portarle via la terra, poichè, non governando il cielo su di essa, occorre sia rescissa dalla medicina. Se tu dunque hai operato questa separazione, la medicina soggiacerà al volere degli astri, sarà dagli astri condotta e guidata“.

Il medico deve procedere partendo dalla natura: che altro è la natura se non la filosofia, e la filosofia che cos’altro se non la natura invisibile? … il medico deve portare in sé una chiara conoscenza dell’uomo, ricavata dallo specchio dei quattro elementi, giacché questi gli squadernano sotto gli occhi l’intero microcosmo, sì che egli vede attraverso di essi similmente a come si vede la gelatina che è chiusa in un bicchiere. … Convien che lo scruti con tale chiarezza di sguardo, quale è quella con cui si possono riconoscere, attraverso una fontana zampillante, le pietre e i granelli di sabbia che vi sono dentro, con tutti i loro colori, forme, eccetera; dunque devono essergli manifeste anche le singole membra dell’uomo. Queste membra devono essere per lui così trasparenti come un levigato cristallo in cui non potrebbe restar celata una pagliuzza. Questa è la filosofia che forma il fondamento della medicina. Non pertanto che tu debba conoscere l’uomo, bensì invece la natura che è stata creata nel cielo; e questa ti fa vedere ciò pezzo per pezzo, giacché l’uomo è fatto di questa natura. La stessa materia di cui egli è fatto, ti indica che cos’è ciò da cui è fatto, alla stessa guisa con cui tu vedi nel ferro una determinata struttura”.

Del legame esistente tra chimica (alchimia) e medicina testimonia del resto, l’interesse che fu tributato da tanti medici i quali s’interessarono sotto vari aspetti dello studio di alcuni fenomeni posti a confine tra le due discipline.

Tale Francesco Sylvius, tedesco, considerò il processo digestivo, alla stregua di un processo chimico che prevedeva l’elaborazione degli alimenti da parte della saliva, dei succhi gastrici e della bile, mentre Otto Tachenius, anch’egli medico tedesco, laureatosi a Padova nel 1644, nella sua opera Hippocrates chimicus, presenta un’abbozzo di analisi chimica ed i risultati di alcune determinazioni quantitative relative all’aumento in peso registrato esaminando il processo di calcinazione del piombo.

Egli pensò che i sali, fossero il risultato di una reazione chimica tra un acido ed un alcale. Angelo Sala, medico vicentino, s’interessò dei processi fermentativi, dei sali di ammonio e degli ossalati. E’ noto, tra l’altro, per la preparazione, con metodi di sua invenzione, dell’acido solforico (H2SO4) e dell’acido fosforico (H3PO4).

La visione della natura in Paracelso, come ha sottolineato lo storico Walter Pagel, è fortemente spiritualistica e pertanto ha contribuito solo limitatamente allo sviluppo della moderna chimica analitica, ovvero di una “chimica” basata sull’analisi delle sostanze e sulla comprensione dei rapporti tra elementi che tali sostanze formano.

Tuttavia i tre principi, Zolfo, Sale e Mercurio, definiti da Paracelso con il termine “tria prima“, hanno svolto un ruolo importante nel determinare le innovazioni della chimica analitica e ciò si è verificato attraverso la lenta spoliazione di quanto di metafisico era, in essi, contenuto.

Secondo Paracelso, i “tria prima” erano sostanze spirituali e quindi non sottoponibili ad un’analisi chimica concreta.

Tuttavia, ad essi, Paracelso accredita la capacità di conferire alla materia le caratteristiche che essa assume quando si mostra sotto le sue molteplici sembianze (minerali, liquidi e gas).

Il Sale è concepito come “Il Corpo”, lo Zolfo come “L’Anima” ed il Mercurio come “Lo Spirito” ed il ruolo che lo Zolfo gioca in questa struttura organizzata’ è quello di farsi mediatore tra Corpo e Spirito per dare luogo alle differenti sostanze. In concreto, la preponderanza del Sale in una sostanza, essendo questo dotato della corporeità, conferirebbe alla materia il carattere della solidità (di qui la formazione di corpi e sostanze solide) questo concetto può essere esteso al caso dello Zolfo e del Mercurio.

Corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo

Nell’Opus Paramirum così scriveva :

Tre cose costituiscono la sostanza e forniscono a una cosa specifica il suo corpo, cioè ogni corpo particolare è in tre cose. I nomi di queste tre cose sono: Zolfo, Mercurio e Sale. Quando quest’ultimi sono posti insieme allora assumono il nome di Corpo, e vengono loro aggiunte la vita e le sue connessioni. Così quando hai in mano un Corpo, hai tre sostanze invisibili sotto una forma. Di queste tre sostanze si può dire soltanto che sono tre sostanze in una forma e che forniscono e costituiscono la salute“.

Il quadro dell’alchimia paracelsiana, si complica alquanto quando egli riconosce che per comprendere ogni cosa, ovvero la natura di ogni cosa, bisogna procedere sistematicamente per conoscere il suo Zolfo, il suo Sale ed il suo Mercurio. Questa metodologia, consentirebbe la penetrazione dei misteri che hanno regolato la formazione dei “tria prima”.

A proposito della separazione degli elementi così ebbe a scrivere nell’Archidoxis:

” ... Notate che gli elementi, mediante la separazione, risultano formalmente uguali agli elementi essenziali. L’aria appare come aria, e quest’aria non può essere racchiusa, come ritengono erroneamente alcuni, perché al momento della separazione si innalza, prorompe come il vento, ascende con l’acqua, con la terra e con il fuoco. Nell’aria vi è una meravigliosa forza di ascensione. La separazione dell’aria dall’elemento essenziale dall’acqua avviene mediante ebollizione. Quando inizia l’ebollizione, l’aria si separa dall’acqua, porta con sé la parte più leggera dell’acqua e via via che l’acqua diminuisce, anche l’aria diminuisce nella stessa proporzione. Si deve notare che nessun elemento può essere ottenuto senza aria, sebbene possa essere concepito senza aria. Non dobbiamo separare l’aria perché essa è negli altri tre elementi come la vita in un corpo. Quando la vita è separata dal corpo, tutte le cose periscono. … Parleremo più chiaramente delle separazioni … Qui devono essere considerati quattro metodi. Uno riguarda i corpi umidi, cioè le erbe che forniscono più acqua che qualsiasi altro elemento. L’altro metodo riguarda i corpi combustibili, cioè i legni, gli oli, le resine, le radici che contengono più fuoco di qualsiasi altra sostanza. Il terzo metodo riguarda i corpi terrosi, ovvero le pietre, i ciottoli e le terre. Il quarto riguarda ciò che è aeriforme: comprende tutte le specie prima menzionate perché l’aria è presente in tutte. E’ chiaro ora quali sono gli elementi e come devono essere separati. La prima separazione che incontriamo è la separazione degli elementi dai metalli. Negli elementi dei metalli vi sono virtù predestinate inesistenti negli altri elementi. … Si deve ora considerare il duplice metodo della separazione. Uno consiste nel separare gli elementi gli uni dagli altri: ciascun elemento viene separato mediante un particolare recipiente, senza distruggere le sue forze. L’altro metodo consiste nel separare purum ab impuro (il puro dall’impuro, ovvero un elemento dal composto in cui si trova) secondo queste modalità. Dopo aver separato gli elementi in una forma grossolana, si effettua un’altra separazione sugli elementi separati. Per comprendere pienamente la pratica della separazione si tenga presente che la quintessenza delle cose deve essere ottenuta, perché gli elementi ottenuti dai corpi possono essere dominati o abbandonati nella natura della quintessenza che tinge (pervade) più o meno gli elementi. Si deve comprendere che i quattro elementi non perdono le loro virtù quando l’elemento predestinato, cioè la quintessenza, è estratto. La quintessenza è elementare e può essere separata in relazione alla sua forma elementare e non riguardo alle diverse nature. Attraverso queste separazioni tutte le malattie elementari possono essere curate con semplicità“.

Tra i detrattori di Paracelso e dell’alchimia possiamo citare, in particolare il grande Robert Boyle che nell’opera The sceptycal chimist (Il chimico scettico, Londra, 1661) ha tentato di demolire sia gli assunti della scienza aristotelica basati sulla teoria dei quattro elementi che le argomentazioni alchemiche.

Egli è scettico nei confronti della scienza e della filosofia “ufficiale” che venivano coltivate nell’ambito delle “scuole” che reputava, in qualche maniera, corporative.

Nella sua opera presenta una lunga serie di dati sperimentali che riguardano i componenti materiali dei corpi e su questi dati impernia una critica radicale nei confronti della dottrina aristotelica e di quella spagirica (spagirici erano chiamati i chimici).

In particolare egli inquadra la dottrina alchimistica come una filosofia basata su assunti inattendibili che derivano da teorie frettolose ed oscure che consentono agli alchimisti di trincerarsi dietro frasari e terminologie occulte e misteriosofiche. E ciò al fine di coprire la reale ignoranza sui fenomeni chimici che si realizzano nei loro laboratori ed in natura.

Robert Boyle

A Boyle può essere accreditata l’introduzione del concetto di “elemento”, infatti nella sesta parte del Chimico Scettico, e precisamente nell’Appendice Paradossale, la critica ha intravisto la definizione che ha fatto riconoscere in Lui, il padre della chimica moderna e che qui di seguito riporto:

 … ora intendo per elementi quello che i chimici, che parlano in modo più chiaro, intendono per loro principi, cioè certi corpi primitivi e semplici, o perfettamente incomposti, che, non essendo costituiti di altre sostanze, né l’uno dell’altro, sono gli ingredienti di cui sono costituiti quei corpi chiamati perfettamente composti, e in cui in ultima analisi questi sono risolti. La cosa che pongo ora in discussione è se esista un qualche corpo che si riscontri costantemente in tutti e in ciascuno di quei corpi che sono detti composti di elementi”.

La critica antiparacelsiana di Boyle può essere riassunta leggendo il seguente brano:

… Per acquistare a se stessi la reputazione di inventori si sforzavano di mascherarli chiamandoli invece di terra, fuoco e aria, sale, zolfo e mercurio, e a essi dettero il falso appellativo di principi ipostatici. Ma quando vennero a descriverli, mostrarono quanto poco avessero capito ciò che intendevano con quei nomi, perché si trovarono in disaccordo gli uni con gli altri come con la verità che insieme negavano. Infatti essi enunciarono le loro ipotesi nello stesso modo oscuro con cui espongono i loro procedimenti ed è quasi altrettanto impossibile, per una persona assennata, trovarne il significato che per loro trovare il loro elisir“.

L’opera paracelsiana si compone di oltre ottanta opere e testimonia della grande elaborazione concettuale ed empirica che vide il Nostro tra i più attivi alchimisti dell’epoca.

Egli visse in una condizione oscillante che lo qualifica uomo medievale e rinascimentale ad un tempo.

E’ medievale nel manifestare una forte attenzione verso l’occulto, è rinascimentale quando propugna l’efficacia della terapia chimica e scruta il malato con occhio severo, ragionando e fondandosi sull’esperienza.

Egli è alchimista, non a caso, infatti è proprio l’alchimia la sola arte reputata capace di far conseguire all’uomo, il massimo valore. La trasmutazione dei metalli, ovvero la loro nobilitazione che poteva far divenire, il piombo, oro, racchiudeva la vera trasmutazione, quella delle anime e dell’uomo che, per suo mezzo, si avvicina a Dio. Paracelso è la presenza tangibile di questa visione spiritualistica.

 

(articolo tratto da Helios Magazine)