La vita oltre la morte nell’antico egitto

Secondo la cultura Egizia, il luogo in cui risiedevano i defunti erano i cosiddetti Campi dei Giunchi (o Campi Iaru) e i Campi Hotep.

I campi Iaru erano collocati nel cielo, nell’orizzonte orientale a contatto con l’orizzonte terrestre nelle vicinanze della porta attraverso cui il sole saliva in cielo ed iniziava il suo viaggio da oriente a occidente, cioè il luogo dalla belle strade che il defunto avrebbe percorso insieme ad Orione e dove la sua esistenza sarebbe stata simile a quella che aveva condotto sulla terra, regnando sugli akhu, i defunti luminosi, identificati con le stelle e compagni del re morto
I testi descrivono questi campi come una immensa distesa d’acqua e il dio sole, il faraone e le principali divinità si immergevano per purificarsi all’inizio di ogni giorno.

I campi Hotep si trovavano anch’essi nel cielo, ad occidente, infatti si definiva il sole al tramonto con la frase “Quando egli riposa nell’orizzonte occidentale del cielo”.
L’espressione campi Hotep, o delle offerte, trovata in una tomba dell’Antico Regno sembra essere piuttosto inconsueta per una dimora eterna, ma indicava semplicemente che bisognava essere ben riforniti per sopravvivere eternamente.
Sembra, secondo i Testi delle Piramidi, che il faraone conducesse un’esistenza simile a quella terrena, il suo regno celeste era diviso in due parti: gli stati di Horus e di Seth ed egli seduto su un grande trono dove, oltre a ricevere l’omaggio dei suoi sudditi (gli akhu), aveva facoltà di giudizio e di dare ordini, conservava cioè i due più importanti privilegi che aveva avuto nella vita terrena.

Nel capitolo centoventicinque del Libro dei Morti viene descritto uno dei passaggi che l’uomo dell’Antico Egitto doveva affrontare dopo la sua morte per raggiungere i Campi dei Giunchi : la pesatura del cuore ed il giudizio divino.

Il dio Anubi accompagnava il defunto nella sala del tribunale di Osiride (la sala delle due Maat) dove, alla presenza di quarantadue giudici, doveva affrontare il giudizio divino.
Anubi, a volte sostituito da Horus, deponeva il cuore del defunto su un piatto della bilancia, mentre sull’altra veniva posata una piuma, simbolo della dea Maat e rappresentazione della giustizia e dell’equilibrio cosmico. La pesatura era sorvegliata dal dio Thot che in qualità di cancelliere, registrava l’esito del giudizio, mentre il defunto recitava la sua confessione.
Ognuno dei quarantadue giudici rappresentava una colpa o un peccato, e il defunto si discolpava mediante una confessione detta “negativa” perché svolta sulla negazione d’aver commesso ingiustizie o atti malvagi (generalmente di carattere religioso o rituale).

Questa confessione era rilasciata in due tempi: dapprima il defunto si indirizzava al tribunale nella sua interezza, poi alle quarantadue divinità che assistevano Osiride.
Dopo aver salutato quest’ultimo “Dio grande, Signore di verità e di giustizia, Signore onnipotente”, di cui egli dichiarava di conoscere il nome magico, così come quello dei suoi collaboratori, il defunto iniziava la propria confessione:

“Io non sono stato violento nei confronti dei miei genitori.
Io non ho commesso crimini.
Io non ho sfruttato gli altri.
Io non sono stato ingiusto.
Io non ho ordito congiure. Io non sono stato blasfemo”.

Il morto si rivolgeva poi a ciascuno dei quarantadue giudici, generalmente spiriti di città o di altri luoghi terrestri:

“O tu, Spirito che appari ad Eliopoli e che procedi a grandi passi, io non sono stato perverso.
O tu, Spirito di Letopolis, dagli sguardi che sembrano coltelli, io non ho ingannato.
O, tu Spirito dell’Amenti, dio della duplice sorgente del Nilo, io non ho diffamato.”

La confessione presentava in sè, visti i peccati che l’anima negava d’aver commesso, un alto carattere morale ma, in realtà, bastava saperla recitare a memoria o leggerla dopo essersela scritta nella tomba, per essere sicuri di ricevere l’assoluzione anche nel caso che si fossero commessi tutti i peccati nominati nel corso dell’atto di discolpa:

Non ho detto il falso
Non ho commesso razzie
Non ho rubato
Non ho ucciso uomini
Non ho commesso slealtà
Non ho sottratto le offerte al dio
Non ho detto bugie
Non ho sottratto cibo
Non ho disonorato la mia reputazione
Non ho commesso trasgressioni
Non ho ucciso tori sacri
Non ho commesso spergiuro
Non ho rubato il pane
Non ho origliato
Non ho parlato male di altri
Non ho litigato se non per cose giuste
Non ho commesso atti omosessuali
Non ho avuto comportamenti riprovevoli
Non ho spaventato nessuno
Non ho ceduto all’ ira
Non sono stato sordo alle parole di verità
Non ho arrecato disturbo
Non ho compiuto inganni
Non ho avuto una condotta cattiva
Non mi sono accoppiato (con un ragazzo)
Non sono stato negligente
Non sono stato litigioso
Non sono stato esageratamente attivo
Non sono stato impaziente
Non ho commesso affronti contro l’immagine di un dio
Non ho mancato alla mia parola
Non ho commesso cose malvagie
Non ho avuto visioni di demoni
Non ho congiurato contro il re
Non ho proceduto a stento nell’acqua
Non ho alzato la voce
Non ho ingiuriato dio
Non ho avuto dei privilegi a mio vantaggio
Non sono ricco se non grazie a ciò che mi appartiene
Non ho bestemmiato il nome del dio della città.

Dopo di chè il defunto doveva rispondere alle domande poste dalla sala stessa, la cui porta è identificata con la bilancia della giustizia e dal dio Thot.

Se il cuore, gravato da troppe colpe, faceva pendere la bilancia il defunto veniva divorato dalla dea Ammit, la mostruosa entità preposta alla distruzione dello spirito nel caso di verdetto sfavorevole del tribunale osiriano, e condannato ad essere annullato per l’eternità.

Se il responso era favorevole Osiride sentenziava la sua ammissione nei “Campi dei Giunchi”.
Al giudizio erano presenti anche quattro entità che rappresentavano il divino di cui è formato l’individuo:
Il dio Shai (il destino)
la dea Meskhenet (protettrice dei parti)
la dea Renenutet (la Signora dei granai)
il ba del defunto.
Il significo morale del giudizio divino poteva essere attenuato dalla sapienza magica, infatti nel capitolo trenta del Libro dei Morti, il cuore era indotto con incantesimi a non testimoniare contro il defunto durante la confessione.