Ago 28 2021
Il culto italico del serpente
Le credenze e i miti basati sul serpente sono da sempre attestati in tutta la penisola italiana, e la loro origine risale alla religiosità e ai culti delle antiche popolazioni italiche. Il serpente dell’antica Europa, manifestazione della Grande Madre, simboleggiava la forza vitale e la trasformazione, ed era intimamente connesso con il potere femminile, le acque e la Luna. Secondo gli studi dell’archeologa lituana Marija Gimbutas, i simboli che circondano il serpente e l’antropomorfica Dea Serpente sono identici a quelli associati con l’uccello acquatico e la Dea Uccello presenti nel Neolitico e Paleolitico. Il suo rinnovamento stagionale, con il cambio della propria vecchia pelle e il letargo, sono la manifestazione dell’archetipo della continuità della vita e dell’esistenza dell’aldilà. Il serpente della Vecchia Europa era dunque una manifestazione della Grande Madre primordiale, attraverso i suoi attributi divini legati alla fertilità, alla trasformazione e all’energia vitale. Le effigi rappresentanti il serpente sono note in tutta Europa fin dal Paleolitico Superiore e continuano nel Mesolitico e nel Neolitico. Nel Neolitico del 6500 – 5500 a.C. teste di serpente con occhi rotondi e bocca allungata sono scolpite o enfatizzate su giare nel sud e nel sud-est d’Europa, continuando per secoli a essere un elemento figurativo primario 1. Immagini di divinità femminili serpentine si ritrovano anche in Italia negli affreschi presenti nella grotta di Porto Badisco in Puglia, sulle cui pareti sono dipinte in nero misteriose creature, i cui arti si concludono in spirali di serpente 2. A Scaloria, nella zona di Manfredonia, sono stati scoperti più di 1500 vasi, risalenti al 5600 – 5300 a.C., decorati con motivi a uovo, pianta, serpente, triangolo, clessidra, V o a chevron, probabilmente legati ai Misteri della Morte e della Rigenerazione che venivano svolti nella grotta 3.
Le manifestazioni divine femminili del serpente erano presenti anche nei popoli italici stanziati nell’Italia centro-settentrionale attorno al I millennio a.C., nel culto arcaico della dea Angizia. Dea sorella della maga Circe e di Medea, fu una tra le divinità principali adorata dai Marsi, dai Peligni e da altri popoli osco-umbri, associata soprattutto al culto dei serpenti. Lo stesso nome della divinità viene trovato come Anguitia (anguis: serpente d’acqua in latino), o con il nome di Ancaria o Ancheria, venerata dai Piceni, in particolare nelle aree di Ascoli, Osimo e Pesaro, o detta anche Vanth dagli Etruschi. Dalle caratteristiche ctonie, fu per questi popoli una vera e propria Grande Madre, Dea Terra e Dea Natura, ed ebbe grande culto in vaste zone dell’Italia centro-meridionale, dove veniva onorata attraverso cerimonie e riti propiziatori della fertilità che si svolgevano a metà primavera. Le antiche sacerdotesse della dea Angizia sapevano ricavare medicine sia dalle erbe che dal veleno dei serpenti, conferendole lo status di Dea Salus, dea della guarigione. Il suo culto era rivolto esclusivamente alle donne, a cui insegnava le arti magiche e curative. I Marsi la consideravano una maga, e talvolta anche una fata, e le attribuirono molti poteri, come quello di uccidere i serpenti col solo tocco. Il bosco sacro che secondo Virgilio era dedicato alla dea Angizia si trova nei pressi del sito archeologico di Lucus Angitiae alle porte della odierna Luco dei Marsi, dove, secondo alcuni autori, vi si praticava la ierodulia, ovvero la prostituzione sacra nel santuario 4.
Nel mondo greco, le divinità femminili legate al culto del serpente, e soprattutto all’archetipo di maga guaritrice, furono Circe e Medea. Entrambe erano donne dalla natura semidivina ed esperte nella conoscenza delle erbe e nella preparazione di medicamenti, veleni e filtri magici. La connessione tra Medea e il serpente / drago e tra Circe, sorella di Angizia, e il mondo acquatico / lunare (vive in solitudine su un’isola) ci fa supporre che originariamente entrambe le donne furono una prosecuzione dell’arcaica figura della Ptonia Theron, “Signora degli animali”, o anche detta Ptonia Ophiòn, ovvero “Signora dei serpenti” 5.
Un’altra divinità greca connessa al potere del serpente fu Igea, figlia di Asclepio. Dea della guarigione e della salute, viene rappresentata come una giovane stretta nelle spire del rettile. Il nome stesso della dea (dal greco Ὑγίεια) ha il significato di “salute”, “rimedio”, “medicina” 6. Tra le leggende greche, famosa è la gorgone Medusa, un essere metà donna e metà rettile con la testa cinta di serpenti, zanne di cinghiale, mani di bronzo, ali d’oro, occhi scintillanti e sguardo che impietrisce 7.
Anche a Roma e in tutto il Lazio vi furono diversi culti serpentini, come quello di Giunone Sospita a Lanuvio e quello di Bona Dea sull’Aventino. Il primo fu molto simile a quello delfico, dove Giunone erarappresentata da un grosso serpente che viveva in una caverna, e in primavera le fanciulle vergini gli offrivano una focaccia per propiziare un buon raccolto venturo. Giunone Lanuviva o Sispes o Sospita era una divinità ctonia legata al ciclo delle stagioni e al ritorno della fioritura. Nei sotterranei del suo tempio si narra che fosse custodito il sacro serpente della Dea. Il secondo culto romano era dedicato a Bona Dea, altra divinità tellurica molto antica anch’essa legata alla vegetazione e ai culti misterici femminili, le cui sacerdotesse a quanto pare si univano sessualmente al serpente per rievocare un’antica leggenda narrata da Macrobio, in cui Bona Dea si congiunge con Fauno sotto le sembianze di un serpente. Il vero nome della Bona Dea, che non poteva mai essere pronunciato, era appunto Fauna, moglie di Fauno 8.
Il serpente era inoltre la rappresentazione più frequente sui lararia latini, ovvero i luoghi dove si veneravano il genius pater familiaris e i Lares o divinità tutelari della famiglia. I Lari (dal latino lares, ovvero “focolare”) erano gli spiriti protettori degli antenati defunti che vegliavano sul benessere della famiglia, della casa e del focolare domestico. Il serpente diventava l’incarnazione dell’anima dell’antenato, poiché animale ctonio connesso agli inferi e alle profondità della Terra. Ad Ercolano resta ancora ben visibile su una parete dipinta un sacello avvolto da un serpente con l’iscrizione “genio di questo luogo, del monte” (genius huius locis montis). Nella concezione romana del sacro, le entità geniali non solo proteggevano i singoli individui, la famiglia, il popolo, ma anche i luoghi privati, monti, boschi, sorgenti e città: così come esisteva un Genio custode del Popolo Romano (Genius Publicus Populi Romani Quiritium) esisteva, ad esempio un Genio del luogo ove sorse Roma (Genius Urbis Romae). Il serpente dunque raffigurava il nume tutelare del luogo ove sorgeva la casa e fungeva da custode della domus, anche in senso prettamente fisico. Ciò spiega ad esempio per quale motivo il tema del serpente (o dei serpenti) si ritrovi molte volte anche sulle pareti esterne delle case di Pompei o nelle edicole dei compita, cioè i crocicchi o incroci dove si onoravano i Lari Compitales, le divinità protettrici dei luoghi in cui si incrociavano le strade. All’interno di una casa privata, la presenza di uno o due serpi su di una parete che ospitava il larario, aveva il preciso scopo di rammentare a tutti coloro che venivano introdotti nell’ambiente, come quella parte dell’edificio fosse destinata a scopi sacrali e come pertanto andasse rispettata. In un famoso passo di Aulo Gellio, l’antiquario ricorda come la madre del futuro condottiero Publio Scipione Africano, disperava di avere figli: sino a quando una notte un serpente si introdusse nella sua camera e nel letto, per poi allontanarsi subito dopo. Di lì a poco la donna cominciò ad avere i primi segni della gravidanza. Il genius loci benigno aveva esaudito le sue richieste. In molte parti d’Italia (e d’Europa) la serpe veniva allevata e nutrita in casa, come se fosse un parente, e non poteva essere uccisa senza mettere in pericolo la vita dei padroni 9.
Le tradizioni culturali e le feste parzialmente cristianizzate legate al serpente, eredi degli antichi culti pagani ed italici, sono ancora presenti e vivono in tutta la penisola italiana, come ad esempio la festa di S. Domenico in Lazio, Abruzzo e Umbria (Foligno, Orvieto, Leonessa, Villamagna, Pretoro, Cocullo, Anversa degli Abruzzi, Villalago, Pizzoferrato, Guardiagrele, Palombaro, Castelmassimo, Sora), la festa di S. Vito di Leonessa a Rieti e la festa di Santa Cristina a Bolsena. Nei paese di Cocullo, il primo giovedì di maggio si svolge la festa dei serpari, dedicata a san Domenico, un’antica celebrazione derivata dai riti dei Marsi e al culto pagano di Angizia. Secondo una tradizione locale, il Santo, cavandosi il dente e donandolo alla popolazione, fece scaturire una fede che andò a soppiantare il culto pagano della Dea Angizia, protettrice dai veleni, tra cui quello dei serpenti. A questa Dea venivano offerte, all’inizio della primavera, delle serpi come atti propiziatori. Il dente di San Domenico è una probabile allusione al dente avvelenatore del serpente. La prima fase della festa dedicata al santo avviene mesi prima e consiste nella ricerca e cattura dei serpenti (tutti rigorosamente non velenosi) da parte di persone esperte, dette localmente “serpari”, i quali osservano le stesse tecniche dei loro antenati. Il “Serparo” è la figura principe del rito. Fin dalle prime ore del mattino essi girano per la piazza del paese con svariati tipi di serpi e invitano i le persone presenti ad avere dei contatti con il rettile onde vincere la paura e la repulsione che l’animale incute. A mezzogiorno inizia la processione con la Statua del Santo avvolta dalle serpi, collocate dai serpari. A seconda di come le serpi avvolgeranno la Statua, i Cocullesi trarranno buoni o cattivi auspici per il futuro 10.
Il rito di San Domenico è molto sentito e similmente praticato anche nei paesi abruzzesi di Palombaro e Pretoro, la prima domenica di maggio; di quest’ultimo paese, san Domenico è il patrono, e si celebra una pantomima teatrale con attori del popolo, che mettono in scena in un boschetto un altro dei miracoli agiografici del santo, ossia la liberazione di un bambino dalle fauci del lupo. La vicenda narra di una giovane coppia di boscaioli che si reca in montagna con il figlioletto di pochi mesi; mentre sono intenti al loro lavoro, un lupo esce dalla boscaglia e rapisce il piccolo dalla culla incustodita. I genitori, temendo per la sorte del loro piccolo, invocano il santo, il quale interviene per ammansire l’animale e fargli riportare il bambino sano e salvo. In questa particolare festa, il potere iniziatico di San Domenico si esprime assieme all’aspetto meteorologico e taumaturgico attraverso il contatto con le rocce. San Domenico oltre a guarire dal morso del serpente, tiene lontani i terremoti, esattamente come le antiche divinità ctonie serpentine 11.
Altre feste dal carattere ctonio-serpentino si ritrovano inoltre nelle località della Marsica e del bacino del Fucino, e nei paesi di Atessa e Pacentro, territori tipicamente sismici, dove si svolgevano antichi culti tellurici. Ad Atessa, vi è un culto ancora molto sentito dedicato a San Martino di Mondragone, eremita e seguace di San Benedetto. La festa del santo si svolge il 3 Agosto e si celebra con la tipica “processione delle ‘ ndorce” (torce di cera vergine d’api) caratterizzata da gesti propiziatori fatti con le pietre, che vengono prelevate dai campi per curare le coliche, oppure da riti di strofinamento sulle rocce, sempre a scopo terapeutico e propiziatorio. Più vicina ai culti orgiastici di propiziazione, è la leggende per cui San Martino, morto in una botte, le conferì il potere di sgorgare vino all’infinito. San Martino quindi presiede ai culti di rinnovamento e fecondità della Terra, con gli stessi attributi del serpente / dragone. Nella tradizione e folclore popolare, tuono, terremoti e serpenti sono strettamente connessi 12. In un proverbio di Pescina in Abruzzo si dice “Se tuona il primo venerdì di marzo crepano le serpi sottoterra”. Negli studi del linguista italiano Mario Alinei, il serpente-drago appare nella zona di confine fra l’ltalia e la Svizzera col nome di origine greca drago, ed è interessante osservare che drago e derivati significano, nella stessa area e in aree adiacenti, anche “piovere”, “torrente”, “frana” e simili 13.
Un’altra festa delle serpi è quella che si celebra sull’altopiano di Leonessa in provincia di Rieti in onore di San Vito. La festa del santo attualmente è limitata ad una SS. Messa celebrata la domenica seguente al 15 giugno, alla quale partecipano molti oriundi cantando l’Inno a san Vito che ha per contenuto episodi agiografici della vita del Santo. Secondo una testimonianza di un’anziana signora di Leonessa, molto tempo fa le serpi, dopo aver dormito per tutto l’inverno tra i sassi del muro esterno dell’abside della chiesa dedicata al santo, invadevano le strade del paese ed alcune di esse entravano in chiesa andando ad attorcigliarsi attorno alla statua del Santo. Per questo, la festa veniva chiamata la festa delle serpi. Dopo la Messa, iniziava la processione con la statua di S. Vito, dove partecipavano i serpari, assieme alle serpi avvolte intorno al collo e sulle braccia, e i fedeli 14.
Un rituale serpentino molto simile, se pur con alcune variazioni, lo si ritrova nei Misteri di Santa Cristina di Bolsena, celebrati il 24 Luglio. La festa in onore della santa è ancoraoggi la più grande, la più singolare e la più sentita dalla comunità di Bolsena, la quale nutre un profondo sentimento di devozione e riverenza ne confronti della santa.La ricorrenza inizia la notte del 23 Luglio, in cui la statua di Santa Cristina viene processionalmente traslata dalla sua basilica alla parrocchia del SS. Salvatore, accompagnata da una festosa processione; sulle cinque piazze che attraversa, su palchi in legno, centinaia di bolsenesi ridanno vita, in forma muta ed immobile, agli episodi salienti del martirio di Cristina. Tra gli episodi maggiormente degni di nota nel martirio della santa, vi è la rappresentazione del martirio delle serpi. Questa rappresentazione rimane quella maggiormente radicata nella tradizione del paese e, fino a non molto tempo fa, venivano utilizzate delle serpi vive, catturate nelle campagne di Bolsena dai serpari nei giorni precedenti la festa. I veri protagonisti della scena erano i serpenti e il Serparo che, all’apertura del sipario, iniziava la sua azione avvicinandoli al volto della fanciulla che impersonava la santa. Nel racconto agiografico, il magistrato romano Giuliano espone Cristina ai morsi dei serpenti, portati da un serparo marsicano, i quali, invece di morderla, presero a leccarle il sudore delle fatiche dal viso; subito dopo i serpenti si rivoltarono contro il serparo mordendolo, ma Cristina mossa a pietà, lo guarì. I fedeli tradizionalmente ricorrono a Santa Cristina per la guarigione dal morso delle serpi, malattie allo stomaco ma, soprattutto, per la liberazione dal maligno e per donare la fecondità alla terra e alla donna 15.
Una tra le più famose pratiche tradizionali “magico-religiose” è il tarantismo, un rito musicale e terapeutico un tempo molto diffuso in Puglia e in tutto il Sud Italia. Con il termine “tarantismo” si indica uno stato di malattia di tipo isterico e convulsivo, costituito da sintomi di malessere generale, quali stati di prostrazione, depressione, malinconia, affaticamento e dolori muscolari. Questo stato di malattia è causato, secondo il folclore popolare, dalla puntura o morso di insetti e animali velenosi, come la tarantola, il serpente o lo scorpione. Il tarantismo si manifesta soprattutto nelle donne, soprattutto durante i mesi estivi, nel periodo della mietitura del grano. Secondo l’antropologo culturale Ernesto De Martino, il fenomeno dei “tarantolati” (affetti dalla malattia del tarantismo) è inquadrabile in due livelli che coesistono fra loro: il primo, dal punto di vista della tradizione e della pratica come un fenomeno di tipo culturale e religioso molto antico, successivamente legato al culto di S. Paolo (protettore degli animali velenosi) e il secondo, come la manifestazione di un malessere psichico che sfocia in una patologia. La tarantolata (talvolta anche il tarantolato), per poter iniziare il rito magico-terapeutico, si autodichiara malata e “morsa” dal ragno davanti alla comunità. L’esecuzione musicale di melodie popolari come la pizzica-pizzica o la tarantella, inducono la tarantolata a danzare in modo frenetico e disinibito, portandola ad uno stato di trance, con il preciso scopo di allontanare il malessere energetico dalla malata 16. Questo rito terapeutico-musicale affonda le sue radici nell’antico culto ellenico di Asclepio, il dio, re, signore e demone della salute e della medicina, predisposto alla guarigione fisica e psichica degli uomini. Il pozzo sacro della cappella di S. Paolo della città di Galatina, luogo di culto del tarantismo galatinese, dove i tarantati bevono le acque miracolose, è la rappresentazione del pozzo – omphalos dalle acque ermetico-curative nel culto di Asclepio. Nel tempio a lui dedicato, era presente in un recinto una thòlos, un’edicola circolare dove stava il pozzo sacro, dimora dei sacri serpenti, e dove i malati lasciavano le tavolette votive con sopra scritte le loro storie, con i sintomi presentati e i trattamenti ricevuti nel tempio. E’ convinzione popolare che il pozzo nella cappella di S. Paolo dimorino serpenti e anguille. Il dio Asclepio, precursore di S. Paolo, è una figura ieratica che doma il serpente e che trasforma il potere ctonio dell’animale in un metodo di risoluzione, di comprensione, di rinascita e di continuità vitale 17.
In conclusione, il culto ancestrale e totemico del serpente è ancora vivo nelle tradizioni e nel folclore della nostra penisola, rintracciabile nei culti e nelle feste dedicate ai santi quali S. Domenico, S. Vito, Santa Cristina di Bolsena e San Paolo, successori cristiani di divinità pagane serpentine ed eredi loro stessi del potere ctonio e curativo.